La
cosa più importante, quando si sveglierà, è che non abbia la
possibilità di liberarsi. Non so come reagirà a tutto questo e non posso
prevedere quale possa essere la sua reazione.
Le corde che lo imprigionano dietro la schiena. Le caviglie legate ben strette e tutte le altre funi che lo fissano alla sedia come in un film di spionaggio in cui il prigioniero, immobilizzato, viene interrogato.
In questo caso non si tratta di un vero e proprio interrogatorio. Io devo solamente andare a fondo in questa storia. Devo tentare almeno di capire il perché.
Al centro del salone la sedia, lui e una nuvola azzurra di fumo. Il bavaglio che gli impedirà di urlare troppo forte.
Fuori il rumore delle auto di passaggio è cessato e un silenzio sordo ha invaso le strade. È come se fossimo rimasti soli, io e lui, in un mondo staccato da tutto il resto.
L'unica cosa che riesco a udire adesso è il ticchettio dell'orologio e il suo respiro affaticato ma regolare.
Mi accendo una sigaretta e mi sgranchisco le gambe facendo un giro attorno al divano. Poi do un'occhiata fuori dalla finestra. Siamo un fotogramma immobile e senza tempo in cui si sta consumando qualcosa che io stesso stento a capire.
E poi lo sento mugugnare.
L'effetto del sonnifero sta finendo e tra pochi istanti lui sarà qui con me. E solo adesso inizia tutto.
Infine, eccolo!
I suoi occhi si aprono lentamente, pesanti come se fossero incollati. Mi puntano immediatamente. E in quei occhi ci vedo una scintilla fredda che mi attraversa come una lama affilata che mi infilza gelida e svelta. La sua testa che si raddrizza con il corpo imprigionato.
Adesso è cosciente ed io sento un brivido percorrermi la schiena. Non accenna nessuna reazione. Ci fissiamo qualche istante prima che mi renda conto che posso liberarlo dal bavaglio senza temere che urli.
Quando finalmente ha la possibilità di parlare non lo fa.
Aspetta.
Io faccio caso alle sue mani cianotiche che hanno assunto un colore scuro. La sua faccia non ha una vera espressione.
Quegli attimi di silenzio sembrano infiniti, estenuanti.
E poi finalmente uno dei due rompe quel silenzio.
E non sono io.
-Ero sicuro che prima o poi ci saresti arrivato.
La sua voce è pacata, tranquilla. Non mostra il minimo segno di alterazione. Niente, come se stessimo chiacchierando davanti una birra al pub.
Poi continua.
-Sapevo anche che quando il momento fosse arrivato avresti agito così.
-Così, come?, gli chiedo cercando di restare freddo quanto lui.
-Così. Sapevo che non mi avresti dato modo di spiegare. Sapevo che avresti creato una situazione in cui potevi avere tutto sotto controllo per cercare di essere tu a guidare la cosa. E lo hai fatto.
In quella sua faccia butterata ci scorgo un quasi sorriso.
Poi va avanti.
-Però la questione è che tu credi di avere il controllo. Lo pensi, ne sei convinto. Ma capirai presto che non è così.
Conosco questi trucchi del cazzo. Sono stato presente tante di quelle volte agli interrogatori che conduceva lui che mi aspettavo una risposta del genere.
Gli dico di evitare certi giochi con me. Gli dico che per adesso voglio solo parlare. Glielo dico ostentando una sicurezza che mi sto inventando. Io e questo stronzo qui, siamo stati compagni per una vita. Io adesso devo capire. Tutto quà.
Distoglie lo sguardo da me e si guarda distrattamente attorno in cerca di niente.
-Ci conosciamo da troppo tempo, ormai. Ti conosco più di quanto tu non creda, sai? So che non avresti potuto capire se te ne avessi parlato.
Sento la rabbia e il risentimento e la delusione che montano in un attimo dentro di me. Mi sento accecato dalla collera che quasi gli urlo in faccia.
Gli chiedo cosa avrei dovuto capire nello scoprire che il mio collega passa le sue notti in giro ad ammazzare la gente.
Lui non risponde subito, ma capisco che non lo fa perché non sa cosa dire. Piuttosto è come se stesse cercando di trovare le parole giuste per spiegarmi qualcosa che non sono pienamente in grado di comprendere.
-Se sapessi dove sparare, non sparerei a casaccio. Però non importa.
Adesso il suo sguardo diventa gelido, austero e minaccioso.
-La vuoi sapere la cosa importante qual'è, amico mio?
Non rispondo. Sono ancora avviluppato dal suono della sua voce rauca per le troppe sigarette.
-La cosa davvero importante-, continua lui, -è che a tutte quelle persone io ho fatto un dono. Un dono immenso.
Cazzo, non ci posso credere. Mi sento colpevole io stesso a non aver capito prima che il mio collega, la persona con la quale ho passato gli ultimi dieci anni di servizio fosse un pazzo, un assassino spietato.
Lui tace come se volesse darmi il tempo di metabolizzare le sue frasi folli. Come se volesse darmi tutto il tempo per leggere la verità, arrivare al senso delle sue parole.
Di che cazzo stai parlando?, faccio io mentre mi accendo l'ennesima sigaretta che gratta in gola.
-Sto parlando di un dono tanto prezioso da valere quanto la vita stessa. Cosa sarebbe la vita se non la si vivesse davvero? Intendo intensamente, con consapevolezza.
Siamo sepolti nel nostro piccolo angolo dei chiarimenti.
E non c'è poi molto da capire, a questo punto.
-Tu hai ucciso persone innocenti. Padri e madri di famiglia, persone con le proprie vite da vivere!
-Da vivere? Quello non è vivere, fidati. Quello è attraversare in modo piatto, un'esistenza piatta. Non provare mai vere emozioni ma piuttosto dei surrogati di emozioni. Qualcosa alla quale ci si abitua. Assuefazione in piena regola. Assuefazione a tutto il vuoto. Erano persone che facevano un lavoro che odiavano, che andavano a cena con amici che non erano davvero loro amici. Persone che raccontavano cose a cui tentavano disperatamente di dare importanza. Cose che in verità non lo erano affatto. Erano persone che non vivevano per davvero! Fino a quando hanno incontrato me.
-Tu sei malato, sentenzio io.
Gli chiedo se questo lo capisce?
-Tu hai il cervello in pappa. E io non riesco a crederci!
-Prima o poi ti avrei anche coinvolto, ma volevo aspettare il momento migliore, dice.
-Tu invece hai accelerato i tempi. Nulla di veramente grave, dopo tutto.
Stretto nella morsa delle corde non accenna a muoversi. Come se non ci facesse caso. Come se non provasse il minimo istinto di liberarsi. A quel punto mi balena nella testa l'ipotesi che si stia rendendo conto che è finita.
Tutto questo è solo un chiarimento.
Accendo il lampadario in fondo. Lui rimane in silenzio fino a quando non torno nella sua visuale.
-Io l'ho capito improvvisamente, fa.
-Io l'ho capito con una violenza inaudita che mi ha scosso fino nel profondo di me stesso. È stato doloroso e bellissimo allo stesso tempo.
E poi mi riporta indietro a tre anni fa. Con i ricordi andiamo ad un martedì in cui, durante una rapina, una raffica di proiettili ci arriva addosso.
Ripiombo improvvisamente nel terrore che provai allora. Ripercorro minuziosamente ogni istante di quel pomeriggio, di quei minuti. Posso addirittura sentire l'odore acre degli spari, le urla sovrastate dai boati dei colpi. Il rinculo della pistola nella mano. Le scene che sembravano a rallentatore, anche allora. E poi lui che, al mio fianco, stramazza per terra come un pupazzo privo di vita. Il suo sangue dappertutto. Le ferite attraverso le quali avevo visto per la prima volta le viscere di un uomo. Vedo distintamente i suoi occhi dai quali svaniva la vita. Il suono della sirena, la corsa in ospedale.
-Quel giorno sono rinato e rinascendo ho capito come stanno le cose. Quello è stato il giorno in cui mi sono sentito davvero vivo. Per la prima volta. Noi viviamo una vita in cui diamo tutto per scontato. Viviamo vite a rincorrere obiettivi che non ci appartengono e che non danno veramente senso alla nostra esistenza. Noi ci trasciniamo come vermi fino alla fine dei nostri vuoti, patetici, squallidi giorni. E poi, solo alla fine ci rendiamo conto di come avremmo potuto vivere. Ma a quel punto è troppo tardi.
Sono frastornato. Intontito. Non dico nulla perché percepisco improvvisamente il nulla nella mia vita.
-Quando punto la mia arma contro una persona, dice lui, nei suoi occhi ci posso vedere quella scintilla. La paura, il terrore e finalmente la consapevolezza della loro esistenza. Il mio dono è quello. Quell'istante vale tutta la loro intera esistenza. Solo in quel momento si rendono conto di esser stati vivi. Solo allora assaporano davvero la vita!
Poi il silenzio torna a coprire tutto come una pioggia fitta fitta.
Mi siedo e non parlo.
Lui non parla.
Non ci guardiamo più, o meglio, sono io a non guardarlo più.
Vado in cucina e mi verso un altro bicchiere di liquore che mando giù d'un sorso. Poi un altro e un altro ancora cercando di non sentire più quelle parole lucidamente folli echeggiarmi nella testa. Ma non posso fare a meno che respirare quelle frasi, assaporare quei concetti terribili.
Dal salone non proviene alcun rumore. Lui è di là, immobilizzato e calmo come un vacca al pascolo. Vado in bagno e mi lavo la faccia con l'acqua fredda. Tento di riprendermi un po’ e poi torno di là.
Attraverso il lungo corridoio fino al salone che sta in fondo.
-Cosa dovrei fare, a questo punto?, faccio io.
-Dovrei chiamare i colleghi e farti sbattere in galera. Dovrei liberarti? Perché dovrei farlo? Perché sei il mio collega? Perché sei un mio amico?
Lui mi fissa con lo stesso sguardo gelido che non l’ha mai abbandonato.
-No, fa lui, -dovresti liberarmi soltanto perché sai che ho ragione. Dovresti solo ammetterlo a te stesso. Tutto quà.
Mi accorgo di essere sudato.
Puzzo di alcool e fumo e poi decido di farla finita. Di mettere tutto a posto.
Una volta per tutte.
Mi avvicino a lui.
Il carnefice diventato vittima. La mia vittima. Io mi dibatto dentro. Solo l'idea di quello che sto per fare mi dà il voltastomaco. Estraggo il coltello dalla tasca posteriore dei jeans. Il suo volto che si riflette nella lama affilata.
Non cede.
Non reagisce.
Impugno il coltello con tutta la forza che posso e taglio le corde.
Lo libero.
Lui torna a muovere dolorosamente le mani bluastre, solleva il viso verso di me mentre si massaggia i polsi segnati delle corde.
-Da dove cominciamo?, chiedo in questo silenzio lacerante.
-Sapevo che alla fine avresti capito. Ci conosciamo da troppo tempo io e te.
Le corde che lo imprigionano dietro la schiena. Le caviglie legate ben strette e tutte le altre funi che lo fissano alla sedia come in un film di spionaggio in cui il prigioniero, immobilizzato, viene interrogato.
In questo caso non si tratta di un vero e proprio interrogatorio. Io devo solamente andare a fondo in questa storia. Devo tentare almeno di capire il perché.
Al centro del salone la sedia, lui e una nuvola azzurra di fumo. Il bavaglio che gli impedirà di urlare troppo forte.
Fuori il rumore delle auto di passaggio è cessato e un silenzio sordo ha invaso le strade. È come se fossimo rimasti soli, io e lui, in un mondo staccato da tutto il resto.
L'unica cosa che riesco a udire adesso è il ticchettio dell'orologio e il suo respiro affaticato ma regolare.
Mi accendo una sigaretta e mi sgranchisco le gambe facendo un giro attorno al divano. Poi do un'occhiata fuori dalla finestra. Siamo un fotogramma immobile e senza tempo in cui si sta consumando qualcosa che io stesso stento a capire.
E poi lo sento mugugnare.
L'effetto del sonnifero sta finendo e tra pochi istanti lui sarà qui con me. E solo adesso inizia tutto.
Infine, eccolo!
I suoi occhi si aprono lentamente, pesanti come se fossero incollati. Mi puntano immediatamente. E in quei occhi ci vedo una scintilla fredda che mi attraversa come una lama affilata che mi infilza gelida e svelta. La sua testa che si raddrizza con il corpo imprigionato.
Adesso è cosciente ed io sento un brivido percorrermi la schiena. Non accenna nessuna reazione. Ci fissiamo qualche istante prima che mi renda conto che posso liberarlo dal bavaglio senza temere che urli.
Quando finalmente ha la possibilità di parlare non lo fa.
Aspetta.
Io faccio caso alle sue mani cianotiche che hanno assunto un colore scuro. La sua faccia non ha una vera espressione.
Quegli attimi di silenzio sembrano infiniti, estenuanti.
E poi finalmente uno dei due rompe quel silenzio.
E non sono io.
-Ero sicuro che prima o poi ci saresti arrivato.
La sua voce è pacata, tranquilla. Non mostra il minimo segno di alterazione. Niente, come se stessimo chiacchierando davanti una birra al pub.
Poi continua.
-Sapevo anche che quando il momento fosse arrivato avresti agito così.
-Così, come?, gli chiedo cercando di restare freddo quanto lui.
-Così. Sapevo che non mi avresti dato modo di spiegare. Sapevo che avresti creato una situazione in cui potevi avere tutto sotto controllo per cercare di essere tu a guidare la cosa. E lo hai fatto.
In quella sua faccia butterata ci scorgo un quasi sorriso.
Poi va avanti.
-Però la questione è che tu credi di avere il controllo. Lo pensi, ne sei convinto. Ma capirai presto che non è così.
Conosco questi trucchi del cazzo. Sono stato presente tante di quelle volte agli interrogatori che conduceva lui che mi aspettavo una risposta del genere.
Gli dico di evitare certi giochi con me. Gli dico che per adesso voglio solo parlare. Glielo dico ostentando una sicurezza che mi sto inventando. Io e questo stronzo qui, siamo stati compagni per una vita. Io adesso devo capire. Tutto quà.
Distoglie lo sguardo da me e si guarda distrattamente attorno in cerca di niente.
-Ci conosciamo da troppo tempo, ormai. Ti conosco più di quanto tu non creda, sai? So che non avresti potuto capire se te ne avessi parlato.
Sento la rabbia e il risentimento e la delusione che montano in un attimo dentro di me. Mi sento accecato dalla collera che quasi gli urlo in faccia.
Gli chiedo cosa avrei dovuto capire nello scoprire che il mio collega passa le sue notti in giro ad ammazzare la gente.
Lui non risponde subito, ma capisco che non lo fa perché non sa cosa dire. Piuttosto è come se stesse cercando di trovare le parole giuste per spiegarmi qualcosa che non sono pienamente in grado di comprendere.
-Se sapessi dove sparare, non sparerei a casaccio. Però non importa.
Adesso il suo sguardo diventa gelido, austero e minaccioso.
-La vuoi sapere la cosa importante qual'è, amico mio?
Non rispondo. Sono ancora avviluppato dal suono della sua voce rauca per le troppe sigarette.
-La cosa davvero importante-, continua lui, -è che a tutte quelle persone io ho fatto un dono. Un dono immenso.
Cazzo, non ci posso credere. Mi sento colpevole io stesso a non aver capito prima che il mio collega, la persona con la quale ho passato gli ultimi dieci anni di servizio fosse un pazzo, un assassino spietato.
Lui tace come se volesse darmi il tempo di metabolizzare le sue frasi folli. Come se volesse darmi tutto il tempo per leggere la verità, arrivare al senso delle sue parole.
Di che cazzo stai parlando?, faccio io mentre mi accendo l'ennesima sigaretta che gratta in gola.
-Sto parlando di un dono tanto prezioso da valere quanto la vita stessa. Cosa sarebbe la vita se non la si vivesse davvero? Intendo intensamente, con consapevolezza.
Siamo sepolti nel nostro piccolo angolo dei chiarimenti.
E non c'è poi molto da capire, a questo punto.
-Tu hai ucciso persone innocenti. Padri e madri di famiglia, persone con le proprie vite da vivere!
-Da vivere? Quello non è vivere, fidati. Quello è attraversare in modo piatto, un'esistenza piatta. Non provare mai vere emozioni ma piuttosto dei surrogati di emozioni. Qualcosa alla quale ci si abitua. Assuefazione in piena regola. Assuefazione a tutto il vuoto. Erano persone che facevano un lavoro che odiavano, che andavano a cena con amici che non erano davvero loro amici. Persone che raccontavano cose a cui tentavano disperatamente di dare importanza. Cose che in verità non lo erano affatto. Erano persone che non vivevano per davvero! Fino a quando hanno incontrato me.
-Tu sei malato, sentenzio io.
Gli chiedo se questo lo capisce?
-Tu hai il cervello in pappa. E io non riesco a crederci!
-Prima o poi ti avrei anche coinvolto, ma volevo aspettare il momento migliore, dice.
-Tu invece hai accelerato i tempi. Nulla di veramente grave, dopo tutto.
Stretto nella morsa delle corde non accenna a muoversi. Come se non ci facesse caso. Come se non provasse il minimo istinto di liberarsi. A quel punto mi balena nella testa l'ipotesi che si stia rendendo conto che è finita.
Tutto questo è solo un chiarimento.
Accendo il lampadario in fondo. Lui rimane in silenzio fino a quando non torno nella sua visuale.
-Io l'ho capito improvvisamente, fa.
-Io l'ho capito con una violenza inaudita che mi ha scosso fino nel profondo di me stesso. È stato doloroso e bellissimo allo stesso tempo.
E poi mi riporta indietro a tre anni fa. Con i ricordi andiamo ad un martedì in cui, durante una rapina, una raffica di proiettili ci arriva addosso.
Ripiombo improvvisamente nel terrore che provai allora. Ripercorro minuziosamente ogni istante di quel pomeriggio, di quei minuti. Posso addirittura sentire l'odore acre degli spari, le urla sovrastate dai boati dei colpi. Il rinculo della pistola nella mano. Le scene che sembravano a rallentatore, anche allora. E poi lui che, al mio fianco, stramazza per terra come un pupazzo privo di vita. Il suo sangue dappertutto. Le ferite attraverso le quali avevo visto per la prima volta le viscere di un uomo. Vedo distintamente i suoi occhi dai quali svaniva la vita. Il suono della sirena, la corsa in ospedale.
-Quel giorno sono rinato e rinascendo ho capito come stanno le cose. Quello è stato il giorno in cui mi sono sentito davvero vivo. Per la prima volta. Noi viviamo una vita in cui diamo tutto per scontato. Viviamo vite a rincorrere obiettivi che non ci appartengono e che non danno veramente senso alla nostra esistenza. Noi ci trasciniamo come vermi fino alla fine dei nostri vuoti, patetici, squallidi giorni. E poi, solo alla fine ci rendiamo conto di come avremmo potuto vivere. Ma a quel punto è troppo tardi.
Sono frastornato. Intontito. Non dico nulla perché percepisco improvvisamente il nulla nella mia vita.
-Quando punto la mia arma contro una persona, dice lui, nei suoi occhi ci posso vedere quella scintilla. La paura, il terrore e finalmente la consapevolezza della loro esistenza. Il mio dono è quello. Quell'istante vale tutta la loro intera esistenza. Solo in quel momento si rendono conto di esser stati vivi. Solo allora assaporano davvero la vita!
Poi il silenzio torna a coprire tutto come una pioggia fitta fitta.
Mi siedo e non parlo.
Lui non parla.
Non ci guardiamo più, o meglio, sono io a non guardarlo più.
Vado in cucina e mi verso un altro bicchiere di liquore che mando giù d'un sorso. Poi un altro e un altro ancora cercando di non sentire più quelle parole lucidamente folli echeggiarmi nella testa. Ma non posso fare a meno che respirare quelle frasi, assaporare quei concetti terribili.
Dal salone non proviene alcun rumore. Lui è di là, immobilizzato e calmo come un vacca al pascolo. Vado in bagno e mi lavo la faccia con l'acqua fredda. Tento di riprendermi un po’ e poi torno di là.
Attraverso il lungo corridoio fino al salone che sta in fondo.
-Cosa dovrei fare, a questo punto?, faccio io.
-Dovrei chiamare i colleghi e farti sbattere in galera. Dovrei liberarti? Perché dovrei farlo? Perché sei il mio collega? Perché sei un mio amico?
Lui mi fissa con lo stesso sguardo gelido che non l’ha mai abbandonato.
-No, fa lui, -dovresti liberarmi soltanto perché sai che ho ragione. Dovresti solo ammetterlo a te stesso. Tutto quà.
Mi accorgo di essere sudato.
Puzzo di alcool e fumo e poi decido di farla finita. Di mettere tutto a posto.
Una volta per tutte.
Mi avvicino a lui.
Il carnefice diventato vittima. La mia vittima. Io mi dibatto dentro. Solo l'idea di quello che sto per fare mi dà il voltastomaco. Estraggo il coltello dalla tasca posteriore dei jeans. Il suo volto che si riflette nella lama affilata.
Non cede.
Non reagisce.
Impugno il coltello con tutta la forza che posso e taglio le corde.
Lo libero.
Lui torna a muovere dolorosamente le mani bluastre, solleva il viso verso di me mentre si massaggia i polsi segnati delle corde.
-Da dove cominciamo?, chiedo in questo silenzio lacerante.
-Sapevo che alla fine avresti capito. Ci conosciamo da troppo tempo io e te.
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