giovedì 26 gennaio 2012

Il pronto soccorso


Quando arriva, la ferita sul braccio ha smesso di sanguinare. La benda che ha avvolto attorno lo squarcio ha avuto l'effetto sperato. Sotto i lembi di garza indurita dal sangue rappreso, l'apertura nei tessuti si è ricoperta di una sorta di crosta scura.

La saletta è leggermente illuminata da un triste tubo al neon che fatica a sopravvivere. Nell'aria c'è odore di vomito e urina. Sul pavimento ci sono macchie indefinite, probabilmente create da liquidi organici lasciati lì da chissà quanto tempo. Nella saletta, negli angoli e sulle pareti ci sono chiazze scure e cumuli di sporcizia e almeno una dozzina di persone dai volti contorti nel dolore e nella rassegnazione.

Quando con lo sguardo cerca di orientarsi, gli sguardi distratti della gente lo inchiodano sulla porta. Tutti quegli occhi che lo fissano per un lungo istante prima che ognuno torni al suo piccolo dramma momentaneo.

Ad una parete c’è un cartello bianco con una scritta rossa che dice “Accettazione”. Alla macchinetta del caffé un altro cartello bianco con una scritta blu che dice: “Guasta”. Claudio si dirige verso l'accettazione. Attraversa il corridoio tra la gente seduta su sedili di plastica grigia che continuano a cigolare anche se nessuno si muove.
Una donna anziana, in vestaglia e pigiama, se ne sta immobile su un sedile accanto la macchinetta del caffè fuori uso. Il bianco dei puoi capelli è quasi  perfetto. La donna riesce a non muovere un solo muscolo. Neanche l'accenno di un sussulto involontario.
La donna con la vestaglia sembra addormentata.
O svenuta.
O morta.
Tenendosi il braccio, Claudio, arriva alla saletta in fondo. Quando entra in accettazione tutti gli altri hanno già smesso di guardarlo.
Un fantasma come tutti gli altri.
Un'infermiera da dietro un vetro spesso e opaco gli chiede quale sia il problema e Claudio le mostra il braccio fasciato.
-Un taglio...-
Lei lo osserva un istante.
-Profondo?-
Claudio le risponde che si, il taglio è abbastanza profondo. Per questo è qui e per questo ha il braccio avvolto in due metri di garza impregnata del suo sangue.
La donna procede con la registrazione e poi lo invita a tornare in sala d'aspetto e attendere il suo turno.
Quando torna nella sala adiacente trova tre persone a turno per entrare in accettazione e l'impressione è che la gente sia almeno raddoppiata.
Una ragazza è seduta sotto una bacheca su cui sono appesi, con degli spilli colorati, diversi fogli. Ha il piede nudo e immobile, disteso su uno dei sedili logori. Non riesce a muoverlo, piange silenziosamente e in faccia ha un'espressione dolorante, impaurita. La madre le tiene la mano. Accanto a loro un uomo, seduto e curvo su se stesso, si muove a mala pena e rantola come se faticasse a respirare. La donna anziana intanto continua ad restarsene immobile, fuori dal mondo. Alcune chiazze di sangue le macchiano il pigiama. Claudio si guarda in giro e per un istante ha la sensazione di non essere  nella sua città. Ha l'impressione di non essere nemmeno nella sua nazione.

La sensazione è quella di essere capitato in un pronto soccorso improvvisato di una zona ai limiti del mondo.
Un cartello informa i signori utenti che ognuno è classificato con un colore. Un codice di priorità.
Il bianco, il verde, il giallo  e il rosso.
Non dovreste mai farvi dare il rosso.
In ogni caso, se vi dovessero dare il rosso, probabilmente non lo sapreste nemmeno, perché dovreste essere quanto meno privi di sensi e ad un passo dalla dipartita.
Fuori i tuoni preannunciano il temporale che sta arrivando. Le raffiche di vento si insinuano sotto la porta che qualcuno ha chiuso. Gli spifferi sembrano una chiacchierata spettrale. Un uomo anziano si tiene il braccio legato al collo con un fazzoletto. Ha la mano gonfia come un pallone e scura come una prugna. Il suo codice dovrebbe essere il giallo. Prima di lui sicuramente c'è la donna che sta urlando per il dolore.
E prima di lei il tizio messo ancora peggio, disteso su una lettiga con lo
sguardo perso chissà dove.

Il personale addetto non esiste, se non quando attraversano la sala per uscire fuori a fumare. I loro volti sono inespressivi, per nulla distratti dallo spettacolo della sala d’aspetto.
In venti metri quadrati ci saranno una ventina di persone che tossiscono, sbadigliano, piangono, singhiozzano, rantolano, soffrono, aspettano e parlano sottovoce per passare il tempo che qui dentro sembra dilatarsi all'inverosimile.
Una signora chiede ad un'altra con un taglio sopra l’occhio destro da quanto tempo sia li. Quella fa un'espressione sconsolata e dice di aspettare da cinque ore. Codice verde.
Insieme ai tuoni si sente l'eco di un'ambulanza. In pochi secondi il mezzo arriva sulla piazzola davanti il pronto soccorso. Portano d'urgenza un tizio, un ragazzo in stato d’incoscienza. Lo scendono giù dall'ambulanza e lo portano direttamente dentro. Senza fermarsi.
Un codice rosso.
Un'urgenza più urgente della donna anziana che sanguina in silenzio.
Un  overdose.
Nei successivi quindici minuti arrivano un incidente stradale, un ictus e due feriti da arma da fuoco. Una gamba rotta, un attacco di appendicite e un tizio che vomita in una busta.
Il codice di Claudio è verde.
La gente li dentro tossisce. Qualcuno si lamenta di essere li da troppe ore e nel frattempo nessuno è ancora stato chiamato. Claudio esce fuori. Le raffiche di vento sono gelide e fuori ci sono almeno il doppio delle persone che aspetta nella sala d'aspetto. Tre cani randagi se ne stanno accucciati in un angolo cercando di ripararsi dal freddo.
Un tizio appoggiato al muro guarda Claudio e dice che farebbe bene a mettersi il cuore in pace, che ha da aspettare.
-Cos'è che ha?-, gli chiede con una specie di ghigno.
-Un taglio-, dice Claudio mentre l'uomo si accende una sigaretta e sorride.
-C'avevo azzeccato. Mi sa che devi aspettare un bel pezzo...-

mercoledì 25 gennaio 2012

Innovazione

Mi è capitato ieri, mentre ero in fila in un ufficio postale, di ascoltare la conversazione tra due signori. Uno dei due era particolarmente trasportato dalle sue idee. 
L'argomento era la tecnologia.

Premettendo che sono convinto che ognuno abbia il diritto di esprimere le proprie idee e, premettendo anche che non intendo certo giudicare nessuno, quello che faccio in questo posto è solo una riflessione personale.

Il locale era piuttosto affollato, quindi ascoltare la conversazione era  più che altro inevitabile. 
I due parlano di Internet, di questi "aggeggi", di questi smartphone e computer. Parlano di come sia qualcosa di pericoloso, di come molta gente sia "connessa", persa in questa "marea di confusione". 
Uno dei due, quello più infervorato, ha stampato in faccia il sorriso di chi crede di saperla lunga, di vedere oltre, di essere custode di una verità che gli altri, poveretti, non hanno la capacità di comprendere.

Gli sento dire che quasi guarda con compassione tutti quelli che tengono in mano un iPad o coloro che oggi si perdono dietro questi cellulari che dovrebbero servire solo a telefonare e invece... 

"Tutta questa gente connessa, tutti li sempre su internet..."

Poi se la prende con Wikipedia.
Fermo restando che apprezzo il fascino di un libro "vero", sfogliarne le pagine, sentire il profumo della carta, è anche vero che l'informazione che il web offre è comunque sempre più aggiornata.
Se uso una enciclopedia di dieci anni fa avrò informazioni di dieci anni fa. 
Wikipedia, secondo il signore fa perdere qualcosa alla cultura. 
Il web aliena la gente, è pericoloso, ti fa perdere chissà in quale mondo oscuro, elimina il contatto con la realtà.

E' vero che non tutta la tecnologia forse ha risvolti positivi, è vero che internet può essere veicolo di pericoli per i minori, ma lo è come qualsiasi altro strumento utilizzato male. 
Quello che penso invece è che si tratta di un grande strumento. 
Penso alla possibilità di esprimere liberamente le proprie idee (anche se qualcuno cerca ogni giorno di limitare questo aspetto), penso a quello che vuol dire condivisione di idee, di conoscenza. Penso all'immensa potenzialità che il web offre. Penso all'abbattimento delle frontiere geografiche, alla comunicazione a distanza e in tempo reale. 
Qualcuno dice che strumenti come i social network alienano le persone, quando forse, se usati adeguatamente, sono strumenti che abbattono davvero le distanze permettendoci di stare in contatto con persone care che altrimenti sarebbe difficile sentire.

Forse, dopo tutto, non si tratta che di evoluzione. 

A quel signore ieri avrei voluto tanto chiedere se la sera, dopo una giornata di lavoro, non piaccia sedersi davanti la televisione. Qualche decennio fa la televisione era una strana scatola dentro alla quale la gente parlava chissà da dove. Una "scatola magica". 
Qualche decennio prima anche la  corrente elettrica poteva essere guardata con sospetto . E le automobili? E gli aeroplani? Stesso ragionamento.

Rifiutare l'innovazione tecnologica, il progresso, forse è solo un segnale di paura e di ignoranza. I telefoni cellulari in più di un'occasione hanno salvato delle vite e se dovessimo ragionare tutti come quel signore, forse oggi andremmo ancora in giro  con le clave, ricoperti da pelli di animali. Tutto quello che bisogna fare è cercare di capire, non aver paura e guardare a tutte queste innovazioni come mezzi per crescere ed evolversi, stando ovviamente attenti ad utilizzarli nel modo corretto. 

lunedì 23 gennaio 2012

Ember - Il mistero della città di luce


Non fermarsi alle apparenze, spingersi oltre i confini e andare oltre i propri limiti. 
Sembra questa, una delle riflessioni che possono stare dietro a questo film del 2008 diretto da Gil Kenan, coprodotto da Tom Hanks e tratto dal romanzo "La città di Ember" (che fa parte di una quadrilogia) di Jeanne DuPrau.

Ember - Il mistero della città di luce è un film di genere fantastico che racconta la storia di Ember, una città costruita sotto terra dopo una non specificata catastrofe, in cui alcune centinaia di persone vengono isolate e messe al sicuro dal mondo esterno nascondendogli la verità. Verità che è custodita all'interno di una scatola che viene tramandata dal sindaco della città di generazione in generazione e che dovrebbe aprirsi dopo duecento anni. 

Nessuno conosce la vera natura del luogo in cui vive. Tutti sanno che Ember è l'unico punto di luce in un mondo di oscurità e tenebra. Le cose si complicano quando il settimo sindaco di Ember muore improvvisamente senza aver avuto il tempo di consegnare la scatola al suo successore. 

L'unica fonte di luce della città è un gigantesco generatore che, dopo troppi anni, comincia a subire i danni del tempo causando continui black-out. Molti iniziano a temere la fine del loro mondo, la discesa inesorabile verso un'oscurità eterna. 
Tutto fino a quando una ragazzina di nome Lina Mayfleet, interpretata da Saoirse Ronan, trova la scatola. Da quel momento, aiutata dal suo amico Doon, avrà il compito di scoprire la verità e ridare speranza a tutto il popolo di Ember. 

Il film risulta piacevole da vedere e leggendo tra le righe si può respirare una certa aria di speranza. Una storia che riesce a dare il giusto equilibrio tra avventura e spunti di riflessione.

Nel cast sono presenti due nomi di spicco, il premio Oscar Tim Robbins, il padre di Doon e Bill Murray, il sindaco di Ember che cercherà di mettere il bastone tra le ruote ai due protagonisti.




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Il pasto...


giovedì 19 gennaio 2012

The Booth


Entri in un locale. 
Ad un tavolo in fondo, è seduto un uomo (interpretato da Xander Berkeley). 
Ti avvicini, ti siedi e gli chiedi di esaudire un tuo desiderio. 

A quel punto ti viene proposto un accordo. 
L'uomo tira fuori una misteriosa agenda e ti chiede di fare qualcosa. In cambio il tuo desiderio verrà esaudito. Potrebbe essere qualsiasi cosa, da uccidere una persona a salvarne un'altra.

E' questa la trama di The Booth, serie scritta da Christopher Kubasik e diretta da Jessica Landaw.

Tutti gli episodi sono girati all'interno di questo locale, cosa che potrebbe far pensare ad una struttura noiosa o monotona del prodotto.
E invece no. 
Infatti il meccanismo narrativo rende ogni episodio davvero godibile. L'intreccio delle vite dei personaggi e il mistero della trama e dell'identità di quello che si definisce un "mediatore", rende The Booth una serie molto interessante.

Al momento gli episodi sono cinque e sono stati trasmessi sul canale 131 di Sky, su MySpace, sul sito www.fxtv.it, e vista la breve durata degli episodi, anche sui cellulari (canale FX Mobile).



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mercoledì 18 gennaio 2012

Libertà sul web

Se oggi si cerca di accedere a Wikipedia ci si troverà davanti una schermata con un messaggio molto importante. Si tratta di una protesta contro una legge sul copyright USA che cambierebbe di netto il concetto di libertà sul web.
Il governo americano sta discutendo una legge che, qualora fosse approvata, gli conferirebbe il potere di censurare internet in tutto il mondo. Grazie ad una lista nera che potrebbe includere portali come YouTube, WikiLeaks e tanti altri, la libertà e l'informazione verrebbero meno.

E' possibile firmare una petizione al seguente indirizzo: http://www.avaaz.org/it/save_the_internet/?fp

Etna - Foto - Fototue.it

Etna - Foto - Fototue.it

Concordia

Siamo abituati a dire la nostra.
Sempre.
Anche quando non siamo presenti ad un evento.
L'abbiamo nel DNA, fa parte di noi, è come quando si impreca contro un giocatore come se si fosse certamente più bravi di lui.


Siamo portati a farlo, sempre, in ogni occasione.


Anche per quanto riguarda il naufragio del Concordia.
Ho sentito persone difendere il comandante. Ho sentito persone "scusarlo" o respingere le accuse della prima ora sul suo presunto operato.


Poi è arrivata la registrazione di quella telefonata agghiacciante tra Schettino e De Falco e credo si possa dire che ogni dubbio può tranquillamente considerarsi risolto!


Se tutto dovesse essere confermato (e credo che lo sarà), ci si troverà davanti l'evidenza dei fatti, che una grossa compagnia come la Costa, ha messo in mano ad uno psicolabile la vita di migliaia di persone. 


Uno che a quanto pare già altre volte è stato autore di bravate che per fortuna non hanno avuto un epilogo tragico come quest'ultimo. Un uomo che avrebbe dovuto coordinare le operazioni di soccorso e che invece, non solo non ha mandato l'SOS ma ha abbandonato la sua nave e contribuito alla morte di molte persone! Solitamente non sono uno che punta il dito o da sentenze, però questo credo sia uno d quei casi in cui la superficialità di un uomo ha spezzato la vita di tanta gente e delle loro famiglie.

lunedì 9 gennaio 2012

In vino veritas

Tu devi fidarti di me!

E i profumi della carne che rosola sul fuoco, delle spezie e degli asparagi si diffondono in tutta la cucina.
Mi muovo tra i fornelli e penso a quante volte ho cucinato per lei. Ripenso a quante cene ci siamo goduti ridendo e scherzando. Quante volte ci siamo guardati con la convinzione che tutto questo non dovesse mai finire.

Tu adesso mi devi ascoltare!

E spengo il fornello grande mentre continuo a ripetermi tutto quello che ho da dirle. Me lo ripeto come fosse un copione, una poesia da recitare a scuola, a voce alta, davanti tutta la classe.
E per un attimo me lo auguro.
Valuto e soppeso ogni parola. L’ultima cosa che voglio è farla soffrire. Si tratta, a questo punto, di onestà. E lei la mia onestà la merita.
Continuo a ripetermi tutte quelle frasi che, fin d’ora, sono certo non sarò in grado di dirle nello stesso modo in cui le sto dicendo al branzino.
Mettiti comoda.
Ascoltami.
Devo dirti una cosa.
E come dovrei dirglielo? Come dovrei dirle che la nostra storia, dopo cinque anni, da stasera sarà solo un ricordo?
Come dovrei dirle che quello che c’è stato tra di noi è acqua passata?
L’aroma dell’olio nuovo si spande in cucina e accompagna il profumo dell’aglio. Sfumo con un goccio di vino bianco che evapora in una morbida nuvola alcolica che arriva fino al soffitto.
Poi il campanello. Il campanello che adesso mi suona con un riverbero cupo e ostile, come una campana funeraria o il segnale per l’esecuzione verso la quale mi dirigo.
La tavola apparecchiata con nessun elemento romantico a compromettere tutto. Niente candele o luci soffuse. Niente incenso. Niente segnali destabilizzanti. Niente che possa far pensare ad una serata romantica.
Francesca entra e non mi è mai sembrata più bella di stasera.
Cominciamo male, mi dico.
La osservo bene. La sua, stasera, è una bellezza triste, sconsolata. È come se sapesse. È come se la sua anima intuisse l’imminente dolore che sto per infliggerle. Lo vedo nei suoi occhi.
I nostri sono sorrisi malinconici. La sera di un addio non potrebbe essere diversa.
Le nostre voci celano qualcosa che non riusciamo a nascondere poi così bene neanche a noi stessi.
Entrambi sappiamo, in qualche strano modo, ma scegliamo di fingere e andare avanti.
Forse è bene parlarne adesso!
Mi scopro incapace di dire ciò che dovrei.
Prendo il suo soprabito e la faccio accomodare.
I suoi occhi lucidi mi guardano come se mi chiedessero pietà e implorassero il colpo di grazia adesso.
Facciamola finita!, sembrano dire.
Un colpo secco e via, senza indugiare oltre!
Ma non ce la faccio.
Stappo una bottiglia di Nero D’Avola e un aroma fruttato e deciso si sposa deliziosamente col profumo delle portate ancora in cucina.
Verso due bicchieri di quel vino dal colore intenso, scuro. Lo lasciamo respirare qualche minuto mentre non posso fare a meno di guardarla. Poi è lei che rompe quel silenzio che sta diventando una tortura.
Mi rendo conto di essere paralizzato. Sono incapace di prendere in mano la situazione e fare quello che va fatto.
E allora ascolto.
Ascolto la sua voce che trema leggermente mentre mi chiede se vada tutto bene.

-Oh si, certo. Tutto bene. Oggi ho avuto tre riunioni e sono solo un po’ stanco, le dico sorridendo.

Francesca appoggia il bicchiere sul tavolo e mi chiede se non sia il caso di rimandare. E lo dice con una voce carica di un’emozione che mi sembra spropositata, con un tono che mi sembra quasi di supplica.
Ed è allora che mi rendo conto che davvero teme qualcosa.
È allora che mi ordino di farla finita e mentre sorseggio il vino metto assieme il coraggio necessario.
Tre, due, uno…
E anche adesso non ci riesco.
Mi limito a dire: non fa niente. Sto bene. Davvero.
E mi accorgo di quanto sia delusa lei. E vedo, è come se mi vedessi da fuori, quanto riesco ad essere patetico e debole e incapace!
I nostri bicchieri sono vuoti e io li riempio mentre assaggiamo le tartine con paté di olive nere. Dopo il secondo bicchiere Francesca ha un colorito roseo e delicato.
Prima della carne, siamo al terzo.
Mi viene in mente quella volta in cui siamo stati in quell’agriturismo fuori città.
Era la nostra prima gita. La prima volta che lasciavamo tutto e tutti per stare assieme. Solo io e lei.
È stato una vita fa.
Dopo il quarto bicchiere la bottiglia è finita. Un piacevole senso di calore mi pervade. Mi sento più disteso e più tranquillo. Sono più determinato, adesso.

Adesso mi devi ascoltare, Fra’.

Lo penso ma non lo dico. Quel senso di sicurezza mi permette di rimandare ancora un po’, senza troppi sensi di colpa, a dopo la cena.

Anche lei adesso sembra più serena.
Stappo una seconda bottiglia che accompagna la carne e gli asparagi.
Beviamo e tutto sembra diverso. Per un attimo mi balena in testa un pensiero fulmineo che vorrei ricacciare dentro. Invece quel pensiero rimane a turbinarmi nella mente. Forse sto correndo troppo. Forse sono stato troppo precipitoso e non ho pensato a tutto nel modo in cui avrei dovuto.
Dopo tutto stiamo così bene insieme! Magari si tratta solamente di un periodo. Una piccola tormenta nel nostro rapporto.
Qualcosa di passeggero.

Si, il mio lavoro, gli impegni, lo stress, i ritmi infernali di una vita sempre di corsa.
Lei è stata la valvola di sfogo per tutto questo.
Solo adesso me ne rendo conto.
Adesso il gusto delle cose è diverso. Più vivo, penetrante.
La seconda bottiglia è ormai vuota e la cena finita.
Francesca la vedo distesa, più distesa di un’ora mezza fa.
I suoi occhi mi rivelano tutta la sua bellezza. Una bellezza che mi sembra di riconoscere e riassaporare dopo un’eternità passata a dimenticarla.

È in questo preciso istante che decido di dimenticare tutto. Tutti i castelli che avevo costruito in aria li sto demolendo.
Uno ad uno.
E dentro sto ridendo e urlando per la gioia di un amore ed un entusiasmo ritrovato. Tutte quelle assurde fantasie insensate, frutto di qualcosa che non riuscivo ad affrontare, adesso scompariranno. Lo supererò.
Io e lei torneremo ad essere quelli di prima.
Per festeggiare prendo la terza bottiglia. Adesso lo scintillio del liquido rosso nei bicchieri è così brillante che sembra emettere luce propria, come una stella.
I suoi occhi che si fermano su di me e mi scrutano a fondo.
Mi guardano nell’anima ed io lascio che lo facciano, come un tempo.
Poi il suono dolce della sua voce.
Le sue labbra che ricordano la sfumatura del vino che stiamo bevendo.
La sua voce calda, dolce che mi dice: devo dirti una cosa.

-Cosa?, chiedo io euforico, mentre verso il vino e ritrovo un’allegria frizzante.

-È tutta la sera che cerco un modo di dirtelo-, fa lei, -ma solo adesso trovo il coraggio di farlo.

E poi: mi dispiace ma è finita.

Adesso il suono della sua voce diventa plastico.
Diventa sordo, distante.
Io sono intontito. E non certo a causa del vino.

Le lacrime che le scendono sul viso.
Lei che si alza ed io che la seguo con lo sguardo.
Non dico una parola.
Con gli occhi la seguo fino alla porta e la vedo scomparire fuori dal mio appartamento.
E non so se crederci, se piangere o ridere.

Poi mi verso un ultimo bicchiere.

venerdì 6 gennaio 2012

Quattro chiacchiere

La cosa più importante, quando si sveglierà, è che non abbia la possibilità di liberarsi. Non so come reagirà a tutto questo e non posso prevedere quale possa essere la sua reazione.

Le corde che lo imprigionano dietro la schiena. Le caviglie legate ben strette e tutte le altre funi che lo fissano alla sedia come in un film di spionaggio in cui il prigioniero, immobilizzato, viene interrogato.
In questo caso non si tratta di un vero e proprio interrogatorio. Io devo solamente andare a fondo in questa storia. Devo tentare almeno di capire il perché.

Al centro del salone la sedia, lui e una nuvola azzurra di fumo. Il bavaglio che gli impedirà di urlare troppo forte.
Fuori il rumore delle auto di passaggio è cessato e un silenzio sordo ha invaso le strade. È come se fossimo rimasti soli, io e lui, in un mondo staccato da tutto il resto.
L'unica cosa che riesco a udire adesso è il ticchettio dell'orologio e il suo respiro affaticato ma regolare.

Mi accendo una sigaretta e mi sgranchisco le gambe facendo un giro attorno al divano. Poi do un'occhiata fuori dalla finestra. Siamo un fotogramma immobile e senza tempo in cui si sta consumando qualcosa che io stesso stento a capire.

E poi lo sento mugugnare.
L'effetto del sonnifero sta finendo e tra pochi istanti lui sarà qui con me. E solo adesso inizia tutto.
Infine, eccolo!

I suoi occhi si aprono lentamente, pesanti come se fossero incollati. Mi puntano immediatamente. E in quei occhi ci vedo una scintilla fredda che mi attraversa come una lama affilata che mi infilza gelida e svelta. La sua testa che si raddrizza con il corpo imprigionato.
Adesso è cosciente ed io sento un brivido percorrermi la schiena. Non accenna nessuna reazione. Ci fissiamo qualche istante prima che mi renda conto che posso liberarlo dal bavaglio senza temere che urli.
Quando finalmente ha la possibilità di parlare non lo fa.
Aspetta.
Io faccio caso alle sue mani cianotiche che hanno assunto un colore scuro. La sua faccia non ha una vera espressione.
Quegli attimi di silenzio sembrano infiniti, estenuanti.
E poi finalmente uno dei due rompe quel silenzio.
E non sono io.
-Ero sicuro che prima o poi ci saresti arrivato.
La sua voce è pacata, tranquilla. Non mostra il minimo segno di alterazione. Niente, come se stessimo chiacchierando davanti una birra al pub.
Poi continua.
-Sapevo anche che quando il momento fosse arrivato avresti agito così.
-Così, come?, gli chiedo cercando di restare freddo quanto lui.
-Così. Sapevo che non mi avresti dato modo di spiegare. Sapevo che avresti creato una situazione in cui potevi avere tutto sotto controllo per cercare di essere tu a guidare la cosa. E lo hai fatto.
In quella sua faccia butterata ci scorgo un quasi sorriso.
Poi va avanti.
-Però la questione è che tu credi di avere il controllo. Lo pensi, ne sei convinto. Ma capirai presto che non è così.

Conosco questi trucchi del cazzo. Sono stato presente tante di quelle volte agli interrogatori che conduceva lui che mi aspettavo una risposta del genere.
Gli dico di evitare certi giochi con me. Gli dico che per adesso voglio solo parlare. Glielo dico ostentando una sicurezza che mi sto inventando. Io e questo stronzo qui, siamo stati compagni per una vita. Io adesso devo capire. Tutto quà.

Distoglie lo sguardo da me e si guarda distrattamente attorno in cerca di niente.
-Ci conosciamo da troppo tempo, ormai. Ti conosco più di quanto tu non creda, sai? So che non avresti potuto capire se te ne avessi parlato.
Sento la rabbia e il risentimento e la delusione che montano in un attimo dentro di me. Mi sento accecato dalla collera che quasi gli urlo in faccia.
Gli chiedo cosa avrei dovuto capire nello scoprire che il mio collega passa le sue notti in giro ad ammazzare la gente.
Lui non risponde subito, ma capisco che non lo fa perché non sa cosa dire. Piuttosto è come se stesse cercando di trovare le parole giuste per spiegarmi qualcosa che non sono pienamente in grado di comprendere.

-Se sapessi dove sparare, non sparerei a casaccio. Però non importa.
Adesso il suo sguardo diventa gelido, austero e minaccioso.
-La vuoi sapere la cosa importante qual'è, amico mio?
Non rispondo. Sono ancora avviluppato dal suono della sua voce rauca per le troppe sigarette.
-La cosa davvero importante-, continua lui, -è che a tutte quelle persone io ho fatto un dono. Un dono immenso.

Cazzo, non ci posso credere. Mi sento colpevole io stesso a non aver capito prima che il mio collega, la persona con la quale ho passato gli ultimi dieci anni di servizio fosse un pazzo, un assassino spietato.
Lui tace come se volesse darmi il tempo di metabolizzare le sue frasi folli. Come se volesse darmi tutto il tempo per leggere la verità, arrivare al senso delle sue parole.
Di che cazzo stai parlando?, faccio io mentre mi accendo l'ennesima sigaretta che gratta in gola.
-Sto parlando di un dono tanto prezioso da valere quanto la vita stessa. Cosa sarebbe la vita se non la si vivesse davvero? Intendo intensamente, con consapevolezza.

Siamo sepolti nel nostro piccolo angolo dei chiarimenti.
E non c'è poi molto da capire, a questo punto.

-Tu hai ucciso persone innocenti. Padri e madri di famiglia, persone con le proprie vite da vivere!
-Da vivere? Quello non è vivere, fidati. Quello è attraversare in modo piatto, un'esistenza piatta. Non provare mai vere emozioni ma piuttosto dei surrogati di emozioni. Qualcosa alla quale ci si abitua. Assuefazione in piena regola. Assuefazione a tutto il vuoto. Erano persone che facevano un lavoro che odiavano, che andavano a cena con amici che non erano davvero loro amici. Persone che raccontavano cose a cui tentavano disperatamente di dare importanza. Cose che in verità non lo erano affatto. Erano persone che non vivevano per davvero! Fino a quando hanno incontrato me.
-Tu sei malato, sentenzio io.
Gli chiedo se questo lo capisce?
-Tu hai il cervello in pappa. E io non riesco a crederci!
-Prima o poi ti avrei anche coinvolto, ma volevo aspettare il momento migliore, dice.
-Tu invece hai accelerato i tempi. Nulla di veramente grave, dopo tutto.

Stretto nella morsa delle corde non accenna a muoversi. Come se non ci facesse caso. Come se non provasse il minimo istinto di liberarsi. A quel punto mi balena nella testa l'ipotesi che si stia rendendo conto che è finita.
Tutto questo è solo un chiarimento.

Accendo il lampadario in fondo. Lui rimane in silenzio fino a quando non torno nella sua visuale.
-Io l'ho capito improvvisamente, fa.
-Io l'ho capito con una violenza inaudita che mi ha scosso fino nel profondo di me stesso. È stato doloroso e bellissimo allo stesso tempo.

E poi mi riporta indietro a tre anni fa. Con i ricordi andiamo ad un martedì in cui, durante una rapina, una raffica di proiettili ci arriva addosso.
Ripiombo improvvisamente nel terrore che provai allora. Ripercorro minuziosamente ogni istante di quel pomeriggio, di quei minuti. Posso addirittura sentire l'odore acre degli spari, le urla sovrastate dai boati dei colpi. Il rinculo della pistola nella mano. Le scene che sembravano a rallentatore, anche allora. E poi lui che, al mio fianco, stramazza per terra come un pupazzo privo di vita. Il suo sangue dappertutto. Le ferite attraverso le quali avevo visto per la prima volta le viscere di un uomo. Vedo distintamente i suoi occhi dai quali svaniva la vita. Il suono della sirena, la corsa in ospedale.
-Quel giorno sono rinato e rinascendo ho capito come stanno le cose. Quello è stato il giorno in cui mi sono sentito davvero vivo. Per la prima volta. Noi viviamo una vita in cui diamo tutto per scontato. Viviamo vite a rincorrere obiettivi che non ci appartengono e che non danno veramente senso alla nostra esistenza. Noi ci trasciniamo come vermi fino alla fine dei nostri vuoti, patetici, squallidi giorni. E poi, solo alla fine ci rendiamo conto di come avremmo potuto vivere. Ma a quel punto è troppo tardi.

Sono frastornato. Intontito. Non dico nulla perché percepisco improvvisamente il nulla nella mia vita.
-Quando punto la mia arma contro una persona, dice lui, nei suoi occhi ci posso vedere quella scintilla. La paura, il terrore e finalmente la consapevolezza della loro esistenza. Il mio dono è quello. Quell'istante vale tutta la loro intera esistenza. Solo in quel momento si rendono conto di esser stati vivi. Solo allora assaporano davvero la vita!

Poi il silenzio torna a coprire tutto come una pioggia fitta fitta.
Mi siedo e non parlo.
Lui non parla.
Non ci guardiamo più, o meglio, sono io a non guardarlo più.
Vado in cucina e mi verso un altro bicchiere di liquore che mando giù d'un sorso. Poi un altro e un altro ancora cercando di non sentire più quelle parole lucidamente folli echeggiarmi nella testa. Ma non posso fare a meno che respirare quelle frasi, assaporare quei concetti terribili.
Dal salone non proviene alcun rumore. Lui è di là, immobilizzato e calmo come un vacca al pascolo. Vado in bagno e mi lavo la faccia con l'acqua fredda. Tento di riprendermi un po’ e poi torno di là.
Attraverso il lungo corridoio fino al salone che sta in fondo.

-Cosa dovrei fare, a questo punto?, faccio io.
-Dovrei chiamare i colleghi e farti sbattere in galera. Dovrei liberarti? Perché dovrei farlo? Perché sei il mio collega? Perché sei un mio amico?
Lui mi fissa con lo stesso sguardo gelido che non l’ha mai abbandonato.
-No, fa lui, -dovresti liberarmi soltanto perché sai che ho ragione. Dovresti solo ammetterlo a te stesso. Tutto quà.

Mi accorgo di essere sudato.
Puzzo di alcool e fumo e poi decido di farla finita. Di mettere tutto a posto.
Una volta per tutte.
Mi avvicino a lui.
Il carnefice diventato vittima. La mia vittima. Io mi dibatto dentro. Solo l'idea di quello che sto per fare mi dà il voltastomaco. Estraggo il coltello dalla tasca posteriore dei jeans. Il suo volto che si riflette nella lama affilata.
Non cede.
Non reagisce.
Impugno il coltello con tutta la forza che posso e taglio le corde.
Lo libero.
Lui torna a muovere dolorosamente le mani bluastre, solleva il viso verso di me mentre si massaggia i polsi segnati delle corde.
-Da dove cominciamo?, chiedo in questo silenzio lacerante.
-Sapevo che alla fine avresti capito. Ci conosciamo da troppo tempo io e te.

giovedì 5 gennaio 2012

Un profondo senso di disgusto

Oggi ho letto un articolo che mi ha lasciato a dir poco senza parole.
Mi chiedo come sia possibile impugnare un'arma, avvicinarsi ad una bambina di appena sei mesi e spararle in testa! La verità è che non dovrebbe essere possibile!
Un essere umano non dovrebbe essere in grado di compiere un'azione del genere.
Mai!
Neanche un animale arriverebbe a tanto.

C'è chi parlerà di perdono.
C'è persino chi, costretto dal proprio lavoro o dalla mancanza di una coscienza, tenterà anche di difenderli.

Personalmente credo che perdonare sia qualcosa di importante e credo anche che chiunque abbia diritto ad essere difeso. Ma credo anche che alcuni casi siano le eccezioni che confermano la regola.
Per come la vedo io, il giorno che questi mostri verranno presi, e mi auguro che ciò avvenga, dovrebbero subire un trattamento esemplare e senza possibilità di replica, come non ne ha avuto quel padre, quella madre e in particolare quella povera bambina che ha subito un destino tanto odioso.

mercoledì 4 gennaio 2012

Detenuti


Il nuovo ospite fu condotto nella cella sul tardo pomeriggio.
Le sbarre si aprirono e lui entrò andandosi a sistemare in un angolo.
La cella non era vuota.
Era già occupata e nell’angolo opposto, il nuovo detenuto vide il suo compagno di prigonìa.
Le sbarre si richiusero e i due rimasero soli.

Il posto era piuttosto piccolo e non troppo pulito. C’era sporcizia e un odore forte, che tutto sommato non era poi così terribile, pensò il nuovo inquilino.

Nessuno dei due disse niente.
Entrambi rimasero immobili nei propri angoli.
A fissarsi.
A studiarsi reciprocamente, cercando, forse, le parole più giuste da dire per rompere il ghiaccio.
I tentativi non andarono a buon fine per un bel po’, fino a quando il nuovo detenuto ruppe quel silenzio quasi imbarazzante.

-Ehi, come va?

L’altro alzò lo sguardo senza rispodere subito.
-Alla grande, amico mio! Alla grande-, disse con una bella dose di sarcasmo.
-Non vedi? Guardati attorno...di che ci si può lamentare? Abbiamo tutto a nostra disposizione!

Quello nuovo percepì l’irritazione nelle parole del suo nuovo compagno.
-Si sta davvero così male?

A quel punto i toni si pacarono.
Il detenuto più vecchio guardò il nuovo arrivato e lo fece con occhi diversi. Dopo tutto avrebbe avuto un po’ di compagnia. Sapeva che con il tempo e con la solitudine si era un po’ indurito. Il nuovo compagno di cella aveva la stessa ingenuità che aveva avuto lui molto tempo prima, quando era arrivato li.
Anche lui, allora, aveva visto quel luogo con gli stessi occhi del  nuovo detenuto.

-Dunque, so che ti può sembrare tutto meno brutto di quello che è. E forse hai anche ragione. Però con il tempo imparerari anche tu a odiare questa prigione nello stesso, identico modo in cui la odio io!

Il nuovo arrivato lo fissò senza dire una parola.
-Magari io mi sono ridotto così-, continuò, -perché sono stato solo per tutto questo tempo...
Quello nuovo cercò di sorridere.
-Bene, magari adesso le cose cambieranno. Cosa si fa solitamente qui?-, domandò con un pizzico di entusiasmo che al vecchio detenuto risultò irritante. Però si sforzò di non dir nulla. Stette in silenzio qualche secondo, rannicchiato nel suo angolo.

-Mah, niente di particolare. La cosa che ti manca di più è lo spazio. Quello si. Ci vorrebbe un posto più grande. Alla noia ti abituerai, col tempo. A proposito, tu cosa hai fatto per essere qui?

-Niente-, rispose senza esitare.
-Per ritrovarci qui qualcosa abbiamo fatto-, sentenziò il vecchio.
-Cosa?
-Lasciamo perdere, è meglio-, disse abbassando lo sguardo.

-E loro? Come sono loro?

Il vecchio detenuto fece una smorfia.
-Ti portano da mangiare e se ne stanno lì a guardarti per tutto il tempo. Irritante, a dir poco.  La cosa che detesto di più, poi, è quando cominciano con le loro richieste.
-Quali richieste?-, domandò l’altro con curiosità.
-Vogliono farti cantare, bello mio! Te lo chiedono in continuazione. Ma io questa soddisfazione non intendo dargliela. Mai!-, disse con un pizzico di orgoglio.
-E loro si incazzano, sai! A me questa cosa piace da matti. La considero una mia piccola vendetta.
-Allora non canterò neanch’io!-, esclamò quello nuovo gonfiandosi il petto.
-Però, se c’è una cosa che non sopporto più davvero-, disse il vecchio detenuto, -è questo cazzo di miglio con cui riempiono le vaschette! Lo odio, non lo sopporto più!-, urlò fissando le vaschette e allargando le lunghe ali gialle.