venerdì 30 dicembre 2011

Da dentro



Se lui decide che io debba essere affetto da un tumore, vuol dire che lo sarò.
Se dovesse decidere che io debba avere un soffio al cuore, vuol dire che avrò un soffio al cuore.
Ogni cosa di cui lui decida io debba essere affetto alla fine ne percepisco i sintomi.
Distintamente.
Profondamente.
Per questo ieri mattina mi sveglio con una sensazione strana al petto. Un peso al centro, proprio in mezzo allo sterno. Il braccio sinistro mezzo addormentato e un infarto in arrivo.
Ed io ho paura. Almeno spero di averne.
L’adrenalina mi fa accelerare i battiti cardiaci.
Sudo.
La fronte mi si imperla di minuscole gocce di terrore e tutto il corpo si ricopre di uno strato di sudore freddo.
Sono affannato.
Sono in procinto di morire. Respirare diventa sempre più difficile. Il distacco.
E poi mi ritrovo ad aspettare il mio infarto per tutto il giorno.
La sera non mi sono ancora deciso a morire.
L’altro ieri avevo un tumore allo stomaco. Nel pomeriggio il tumore si è poi spostato alla gola. Il giorno prima ai polmoni. Il mese scorso avevo un cancro ai testicoli e quello prima ancora ero affetto da febbri ghiandolari che mi hanno fatto pensare alla sclerosi laterale amiotrofica.
È questione di tempo.
La successiva difficoltà nei movimenti delle mani me l’hanno confermato.
Ho vissuto nella paura e nel dubbio e nell’attesa.
Poi sono guarito.
Ancora.
Come ogni volta, prima di trovare in me nuovi sintomi, nuovi segnali e campanelli d’allarme che mi fanno dimenticare i precedenti e scivolare in una nuova fine della mia esistenza terrena.
Il doloroso esaurimento della mia vita.

In ufficio porto avanti a stento il mio lavoro. La fatica mi accompagna in ogni singola azione, da quando mi sveglio al mattino fino a quando mi addormento la sera.
Il fatto è che devo documentarmi. Navigo su internet alla cerca di sintomi da fare miei. Sentori di patologie che in un modo o nell’altro io devo avere.
Navigo alla ricerca di cure alle quali non sottopormi.
Cerco nuove malattie dalle quali essere affetto.
Patologie di cui non parlo col medico.
Le mie letture preferite sono manuali di medicina.
Le mie letture preferite sono elenchi di malattie genetiche. Sono libri sul cancro, sulle patologie degenerative dei tessuti. Il decadimento fisico, inesorabile e senza speranza. Il concetto della caducità dell’essere umano.
La mia caducità.
Mi muovo nel mondo virtuale in cerca di qualcosa che tenti almeno di uccidermi, di annientarmi.
Io lo devo fare.
Lo devo a me stesso.
Il mio cervello che comanda e decide come devo morire. Lo devo fare per non finire come tutti gli altri, che muoiono senza neanche sapere come.
Io devo avere il controllo della mia fine.
Io ne devo esserne cosciente. Pronto.
Devo sapere di sapere.
Decidere prima dei medici.
Nessuno li a dirmi di che malattia sto morendo.

La profonda conoscenza dei sintomi per determinare il modo in cui devo ammalarmi.
Ischemia cerebrale.
Atrofia muscolare spinale, detta anche Malattia di Werdnig-Hoffmann.
Emofilia, distonia, distrofia miotonica, glicogenosi, morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson, rene policistico, sindrome di Alport.
Ogni giorno qualcosa di nuovo. Ogni giorno nuovi sintomi e poi avanti a cercarne altri ancora.
Non so da quante malattie non sono mai stato affetto.
Mi alzo dal letto e sono già stanco. Più della sera prima. Vado in bagno e cerco tracce di sangue nelle urine. Mi alzo dalla tazza del water e cerco qualcosa di strano nelle feci. Ne controllo il colore, la consistenza. Qualsiasi traccia è già qualcosa. Mi lavo facendo attenzione ad eventuali anomalie della pelle. Poi controllo il cavo orale. Controllo i testicoli. Controllo gli occhi.
Gli occhi mi bruciano e sono arrossati.
Potrebbe trattarsi di un’infezione. Potrei diventare cieco nel giro di qualche giorno.

In cucina metto su la moka. Poi annaffio le piante sul balcone e prendo in considerazione la possibilità di respirare spore che vadano a depositarsi da qualche parte nel mio apparato respiratorio, ad intaccare i polmoni o il sistema nervoso. Potrei cominciare a soffrire di strani disturbi a cui nessun medico darebbe il giusto peso. Strani disturbi che inspiegabilmente mi porterebbero ad una strana, incomprensibile crisi. Poi al coma. Nessuna spiegazione apparente.
Non svegliarmi più.

Alcuni piccioni si levano in volo quando urto la ringhiera del balcone.
Il piccione è portatore di circa sessanta malattie.
Le feci dei piccioni sono piene zeppe di agenti patogeni.
Salmonellosi, criptococcosi, istoplasmosi, ornitosi, aspergillosi, candidosi, clamidosi, coccidiosi, encefalite, tubercolosi sono solo alcune delle malattie che possono trasmettere. E il bello è che non è necessario neanche il contatto diretto. Gli aspiratori o semplicemente il vento possono tranquillamente trasportare questi agenti dentro casa, negli uffici e poi nel tuo organismo, dappertutto.
E tu non lo sai, non te ne rendi conto.
Ecco perché non ho disseminato il mio balcone di repellente. In questo istante potrei già essere stato contagiato senza saperlo. Lo immagino. Lo prendo in considerazione. Non verrò mai colto di sorpresa.

Il caffè è pronto. Mi preparo anche una tazza di cereali transgenici che con ogni probabilità mi procureranno anomalie genetiche degenerative. Mando giù un sorso d’acqua contaminata e poi esco di casa. Attraverso invisibili nubi tossiche. Polveri sottili e agenti chimici che disgregano ogni mia singola cellula che finirà con l'impazzire a continuare a moltiplicarsi all’infinito. Particelle invisibili che avvelenano il mio DNA.
Sull’autobus mi sorreggo a sostegni che sono stati toccati da individui malati, affetti da patologie che mi si stanno attaccando all’organismo. Proprio adesso. In questo istante.
La ragazza in fondo all’autobus è vestita in modo che dovrebbe apparirmi sexy, che dovrebbe farmi pensare al sesso. Una bella donna che dovrebbe destare il mio interesse di maschio come è per tutti gli altri uomini che la fissano con discrezione.
Eppure riesco solo a vederla come possibile veicolo di malattie veneree. Un mezzo di contaminazione con jeans attillati e un top nero che le scopre un piercing con brillantino all’ombelico. Potrebbe essere una di quelle con una vita sessuale promiscua. Potrebbe tranquillamente essere una di quelle che se ne va in giro a diffondere virus, batteri, parassiti e funghi. Sifilide, gonorrea, linfogranuloma inguinale, herpes genitalis, epatite virale, scabbia, pediculosi, AIDS.
La prossima è la mia fermata. Abbandono il bus in una crisi di tachicardia che si risolve in pochi minuti. Per le scale invece mi fermo per una breve aritmia cardiaca che passa in pochi istanti di respirazione controllata. Inspiro ed espiro. Lentamente. In modo regolare e profondo.
Arrivo in ufficio e faccio un cenno a tutti. Tutti mi guardano e ricambiano con lo stesso cenno della testa. Qualcuno sussurra un “buon giorno” distratto. Laura, seduta alla sua scrivania, mi sorride.
Andrea mi sorride, ma è più un ghigno. Poi sparisco nella mia stanza.
Accendo il PC e comincio a cercare e cercare e studiare e inglobare tutte le informazioni che mi servono per sentirmi vivo. Lui è di questo che si nutre. È di questa sofferenza che vive. Accosto questo concetto a quello di parafilia. Cerco la sofferenza per trarne godimento. E di questo comincio ad averne paura. Di questo, so di avere bisogno.

Mi analizzo. Comprendere le dinamiche della mia mente. Di lui, del mio cervello.
Esistono patologie che potrebbero portarmi a fare questo tipo di ragionamenti? La schiavitù di me stesso. L'essere succube di me.
Mi chiedo se sono certo di volerne uscire.
Mi chiedo se davvero ne possa fare a meno.
Provo ad immaginare una vita priva di queste sevizie e improvvisamente mi sento libero e poi vuoto. Mi sento libero e poi triste, depresso e affascinato da una prospettiva tanto assurda.
Leggo.
E ad un certo punto bussano alla mia porta.
Un respiro profondo.
<>
Entra Luca. Fingo di leggere dei documenti che ho sulla scrivania. Sollevo lo sguardo verso di lui e vedo il ritratto della salute. La fotografia della serenità. Mi sembra di stare davanti ad uno specchio al contrario.
Mi chiede cosa deve fare con la sua relazione mensile.
Gli dico di lasciarmela.
Allora lui attraversa la stanza con un’andatura atletica fino alla mia scrivania e lascia il fascicoletto di fogli A4, spillati sull'angolo in alto a sinistra, sul mio tavolo. Poi esce dalla stanza e richiude la porta.
Il mio pensiero adesso è l’assenza di pensieri.
La brevità di assenza di paura.
Un infinitesimo di secondo durante il quale non sono più io.
Mi alzo e vado allo specchio appeso accanto la libreria con pochi libri e qualche oggettino senza valore.
Mi osservo.
Mi studio.
Studio quel viso scarno, emaciato.
Il pallore e la fatica di dover combattere contro niente di reale se non una reale, continua simulazione di paura. Le borse scure sotto gli occhi. Occhi arrossati, stanchi di chi non chiude occhio da settimane. Avrò perso quattro chili solo negli ultimi sei giorni. Mi chiedo se questa perdita di peso non sia dovuta ad un carcinoma nascosto da qualche parte nel mio corpo. Mi chiedo se questo pallore non sia un segnale di una grave forma di anemia. Tiro fuori la lingua che è ricoperta da una patina bianca. Il mio alito puzza. Consumo enormi quantità di mentine che non servono a nulla. Non posso fare a meno di domandarmi in che condizioni sia il mio stomaco. Il mio fegato. Il mio pancreas.
Mi perdo davanti allo specchio.
Mi perdo nello specchio.
Esamino lo sconosciuto che ci vedo riflesso e mi chiedo come abbia fatto a ridurmi in questo stato. Mi domando il perché. Mi chiedo se mai ne verrò fuori. Dove sono arrivato?

Poi ripenso a Luca che sorride sempre, una persona serena, in forma. Luca che in una donna ci vede il fascino intrigante della femminilità e non un’incubatrice di malattie.
D’un tratto mi ritrovo ad aver voglia di voltare pagina. Devo, voglio farla finita e abbandonare questo stato di sofferenza perenne.
Improvvisamente, da dentro, mi ritrovo ad urlare, a scalciare per guarire.
Per rinascere.
Io voglio guarire!
Io voglio rinascere!
Quello che so è che devo cambiare modo di pensare. Quello che so è che devo  lasciarmi alle spalle letture e nozioni che sono diventate le mie catene. Quello che so è che il mio cervello non deciderà più di che morte sto morendo. Il mio corpo è sano, mi ripeto.
Ho solo inventato.
È stato il modo più sconveniente per sentirmi vivo.
Invenzioni sfuggite al mio controllo e il modo più letale per vivere.
La mia esistenza è stata il mio declino. I miei tentativi di sopravvivere un lento, doloroso spegnersi.
E poi mi ritrovo a sorridere.
E mi sembra di non farlo da anni.
Mi scopro una persona diversa da quella che stamattina si è alzata dal letto in punto di morte.
Il cuore mi batte dalla gioia. La speranza di tornare a vivere. Uno spiraglio luminoso e confortante.
Il cuore che mi batte all’impazzata.
Ed io rido.
E rido.
Rido in silenzio.
Guardo l’uomo nello specchio e poco alla volta lo riconosco. Mi guardo ridere dall’altra parte dello specchio e ho la sensazione di non incontrarmi da anni. Mi sembra di vedermi oggi per la prima volta!
Il cuore accelera e le endorfine mi si propagano in tutto il corpo dandomi una strana sensazione di calore e benessere.
Sto bene.
Sono sereno. Per la prima volta da tanto tempo.
Sto nascendo un’altra volta e questo è il momento migliore di tutta la mia vita.
Avverto un dolore che conosco bene.
Lo sento al centro petto. Sempre più forte e intenso.
Sudo.
Ho freddo.
Qualcosa di strano, che conosco.
E mi sento mancare.
Ed io credo di essere ancora li a ridere.
Mi sento come se mi stessi allontanando da tutto. L’abbandono.
Sempre più distante.
Il nirvana.
Perduto in un mondo ovattato.
Il braccio sinistro che non c’è più. La mia faccia di gomma. La mia faccia che non c’è più.
Tutto quanto che si copre di un chiarore rilassante. La mie mani non ci sono più.
Tutto sembra ridimensionarsi  ad una nuova ottica.
Una nuova prospettiva.
E io rido, rido dentro, nel profondo.
Sudo freddo. E sto bene. E sono rilassato.
Tutto, attorno a me, si fa buio, e si fa distante.
Lontano.
Silenzioso. Sereno.

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