venerdì 6 febbraio 2009

Redenzione

Rannicchiato in un angolo del letto, l’uomo grasso e pelato sembra stia piangendo. Sulla maglietta verde militare gli si sono formate piccole macchie scure di lacrime e aloni di sudore sotto le ascelle. Singhiozza. Tanto da non riuscire a parlare. Resta silenzioso, in attesa. 
La donna che gli sta davanti è magra e alta. È fasciata di lattice rosso e lo fissa silenziosa, fredda e distaccata e severa.
La camera è disseminata di candele profumate e corde e catene, manette e unguenti e olii profumati e giocattoli. Vibratori di varie forme e colori sono sparsi sul comodino e sul comò. 
Lui se ne sta immobile, in mutande, al cospetto di lei che lo fissa senza dire una parola. Singhiozza e cerca di liberarsi dalla stretta di un paio di manette che lo tengono prigioniero. 
“Non muoverti!”, gli intima lei lasciando schioccare un colpo di frustino tra le gambe. 
E ai singhiozzi si mescola un grido di dolore. 
Lui non parla. Si limita ad esibire uno sguardo pietoso e supplicante. 
Poi, quando sta per parlare, lei lo fulmina, come se sapesse, come se gli leggesse la mente.
“Stai zitto!”.
Un altro colpo di frusta sulle cosce sudate e arrossate dai colpi precedenti. Compaiono lunghe strisce rosse, ferite che si aggiungono a quelle più vecchie e già cicatrizzate. L’uomo suda e il sudore si mescola alle lacrime. La donna gli sputa addosso e la saliva di lei si mescola al sudore e alle lacrime e al sangue. E il tizio, impiastrato di fluidi organici, si lasca quasi andare. 
Cede, per un istante, cede. 
La luce soffusa, l’odore forte.
La donna si sistema proprio davanti al prigioniero e lo fissa e poi tira giù la cerniera sul davanti del costume lucido. 
I suoi seni in mostra. Poi, all’altezza dell’ombelico, si ferma.
“Ti piacerebbe vedere di più? Vorresti toccarmi? Avermi? Vorresti scoparmi?”
E lui agita la testa su e giù. Una specie di muta e sudata, implorante risposta. Una preghiera silenziosa. 
Una supplica senza fiato. 
E poi si affanna e ansima come se stesse per avere un orgasmo. L’erezione sotto gli slip macchiati di sangue. 
E lei continua. 
Senza esitare. 
Abbassa la lampo ancora un po’ scoprendo il ventre liscio, piatto come quello di una modella della pubblicità. L’uomo strabuzza gli occhi e spalanca la bocca come se fosse stupefatto oppure affamato. Lei si sfiora i capezzoli e a lui sembra che gli occhi stiano per schizzargli fuori dalle orbite. La donna si sfila completamente la mise rossa e resta nuda davanti lo sguardo del suo prigioniero. La camera è permeata di odori umidi e calore e silenzio. Lei si muove flessuosa, lenta. Sfila sotto gli occhi di lui.
“Scommetto che vorresti toccarmi”, sussurra lei.
Lui sibila un rauco si. 
Poi gli molla uno schiaffo tanto forte da farlo cadere indietro, sul letto. 
A fatica riesce a tirarsi su e rimettersi seduto. Paonazzo, con la pelle lucida.
“In ginocchio!”.
Lei fa schioccare un altro colpo di frusta, stavolta sul pavimento, a pochi centimetri da lui che obbedisce come se ne andasse della propria vita. 
Lei si siede sulla poltrona di fronte il letto. 
Di fronte l’uomo in ginocchio, ammanettato.
Si sfiora con il frustino e divarica le gambe. 
Le spalanca. 
L’uomo tira fuori la lingua nell’impossibile tentativo di assaporarla. 
Lui ansima e lei non distoglie lo sguardo da lui. Uno sguardo gelido, di superiorità, quasi di disprezzo.
E lui si dimena. 
E lei anche.
Mugolii.
Respiri affannati, accelerati e gemiti.
L’uomo cerca di divincolarsi ma è troppo grasso e troppo sudato e troppo stanco e troppo ammanettato. 
Lei gode.
Lui vorrebbe urlare. Vorrebbe staccarsi a morsi quelle manette che lo soffocano, che gli impediscono di fare quello che l’istinto gli urla di fare.
Quelle manette che lo proteggono da se stesso!
Con un calcio, lei, lo schianta sul pavimento. Il tonfo sul parquet è sordo. Il grasso dell’uomo ondeggia come budino, come gelatina. 
La ragazza lo fissa impietosa.
Lui la guarda con la coda dell’occhio. 
Con riverenza. 
Con timore.
E aspetta.
Spera. 
E sogna. 
E implora.
Ai piedi, lei, ha stivali di vernice nera. È con il sinistro che lo colpisce. L’uomo lancia un urlo soffocato, smorzato dal piacere che si mescola al dolore. 
L’umiliazione che lo eccita. Il dolore che lo fa sentire vivo e…peccatore!
La donna rialza il piede e col tacco punta la tempia dell’uomo.
Preme. 
Il respiro si fa sempre più affannato. Lei preme sempre più forte. Con la coda dell’occhio l’uomo la cerca e infine la vede. 
Bellissima e crudele e dura e immorale!
Il tacco, prima di sfondargli la tempia, si ferma. 
Proprio in quell’istante lui ha il suo orgasmo. Il suo dolore appagante perso nel silenzio della stanza.
Dopo pochi istanti è lei a rompere quel silenzio irreale. 
Mentre si riveste il suo viso torna ad essere quello dolce di sempre.
“Padre, è quasi ora. Ha venti minuti prima della funzione”.

domenica 1 febbraio 2009

Evoluzione

-La verità è che ti stavi rammollendo-, mi sento dire.
E a dire il vero non posso che essere d’accordo.
Mi dice che l’aver trascorso tutto questo tempo quaggiù mi ha quasi provocato una sindrome da distacco. In pratica, stavo per dimenticare il vero motivo della mia permanenza qui. Lo scopo. Il fine.


Le crepe su queste pareti sono rughe sul viso del nostro rifugio che in realtà è una baracca dispersa in un angolo dimenticato tra i due emisferi.


La verità è che stavo per cedere.
La verità è che mi sono salvato per un pelo.
E adesso, finalmente, eccoci qua a portare a termine l’ultima fase del progetto.
I dati e le analisi e le proiezioni, tutto parla chiaro, mi dice lui. Abbiamo cercato una soluzione alternativa e dopo aver fatto tutto quello che potevamo fare, siamo arrivati qui, adesso. Non ci sono altre soluzioni. È questo che continuo a ripetermi.
Tra di noi un tavolo di noce, più vecchio che antico, sul quale sono spiegate tutte le carte, i dossier, le cartine e tutto il materiale che abbiamo esaminato finora. Lui, dopo la pausa, è tornato a concentrarsi sulle proiezioni di diffusione e tutto il resto.
I suoi occhi che straripano di determinazione, cerchiati e gonfi di stanchezza. Guardo le sue rughe e osservo le crepe sulle pareti che si intrecciano sulle macchie di umidità che disegnano strane scene incomprensibili.
Ogni suo respiro è una folata nauseabonda che mi investe in pieno.
Mi chiedo quanto tempo sia trascorso da quando siamo arrivati quaggiù e lui sembra sia capace di leggermi nel pensiero e dice: siamo qui da troppo, ormai. Lo sapevi che si correva il pericolo di arrivare a questo. Non è la prima volta e molto probabilmente non sarà nemmeno l’ultima.
Il suo sguardo mi si stacca di dosso per tornare sulle carte che ha davanti. Ho l’impressione che lo faccia a rallentatore.
Il fatto è che questo rappresenta una cosa davvero enorme per non rimanerne un minimo turbati, penso. Lui fa: a scanso di equivoci, stiamo facendo la cosa giusta. Quando abbiamo iniziato si sperava che le cose andassero diversamente, lo so. Ma era messa in conto, questa eventualità. E’ questo che capita quando un esperimento va male. Si butta via tutto e si ricomincia daccapo.
Il mio senso di colpa dev’essere più evidente di quanto io non creda.
Dice: ah, a scanso di equivoci, non sei pazzo. E non stai immaginando tutto. Tu non hai un’infezione cerebrale o una patologia degenerativa di alcun genere. Insomma, quello che voglio dirti è... tu sai già che è la procedura standard.
Io so che si tratta della procedura standard.
Ne è venuta fuori una specie autodistruttiva, belligerante. E’ proprio questo, in fondo, che ne è venuto fuori e le eccezioni non contano, dice. Una percentuale poco rappresentativa che non può determinare nulla, adesso. Hai vissuto qui troppo a lungo.


I suoi capelli impomatati e lucidi e tirati indietro, stirati dal berretto di lana adesso poggiato vicino lo spigolo del tavolo contro il quale vedo una testa fracassata.
La sua.
O forse la mia.
E poi penso.
E poi analizzo ancora.
Ancora.
E ancora e ancora, fino allo sfinimento.
Si tratta di metabolizzare tutto questo, mi dice mentre sposta dei fogli e afferra la tazza di ceramica con dentro della brodaglia scura.
E ci riuscirai, mi incoraggia.
Non ci si possono permettere incertezze.
Lui mi guarda e sorride con un sorriso freddo. Un sorriso di plastica.
Nel catino, l’acqua increspata si è quasi congelata. C’è odore di cera, nell’aria. La candela è ormai una mezza candela. Lui va alla finestra e scosta le tende e lascia entrare la luce del tramonto. Su un mobile, una cesta di vimini sembra luccicare. Un fotogramma congelato di morte. Un destino simile a quello che aspetta questo luogo, penso.
Tutto sembra essere silenzioso e triste e rassegnato. Pronto a morire.
Io sono me stesso che immagina se stesso che immagina che tutto questo non stia accadendo veramente. Io ho già preso una decisione, tanto tempo fa.
Poi lo raggiungo e do un’occhiata fuori dalla finestra. Lui, avvolto nella sua giacca a vento, è sereno. E io provo invidia, in questo istante. E lui lo sa. La candela è un moncone informe e fiammeggiante.
Nella testa mi tuonano le parole declino e fine e oblio, decadenza e crollo.
Usciamo fuori. L’aria è pungente, fredda. In alto, strati di nuvole sottili attraversano un cielo che sembra più sconfinato di quanto non sia. Un cielo che sembra andare a fuoco sopra le montagne.
Facciamolo, dico io con tutta la decisione che posso. E lui mi risponde senza dire una parola, con lo sguardo che mi posa addosso. A pochi passi dal nostro rifugio, eccola. La voliera. Dieci metri per sei. Un insieme di canne di bambù e fil di ferro che tengono imprigionati i nostri veicoli.
Ci dirigiamo verso la gabbia. Apro il lucchetto che tiene chiusa la porta ed entriamo. Gli animali ci accolgono starnazzando e sbattendo le ali. La potenza dell’inconsapevolezza, penso.
Richiudo la gabbia e lentamente le anatre e i cigni cominciano ad abituarsi alla nostra presenza. Nella voliera torna la calma.
Io sono me stesso. Io sono quello che stiamo per fare.
-Va bene-, dice, -procediamo-. E dalle tasche delle nostre giacche tiriamo fuori le fiale che contengono il liquido incolore e inodore. Dall’aspetto si direbbe niente più che acqua. Ma è molto di più.
Non ci scambiamo più nemmeno uno sguardo prima di versarne il contenuto nelle due grandi vasche d’acqua. Lo facciamo lentamente, con solennità, quasi.
Gli animali ci osservano e per un istante mi illudo che qualcuno di loro abbia il sospetto di sapere ciò che stiamo facendo.
Poi usciamo dalla voliera e richiudo il lucchetto.
Adesso l'attesa. L’ultimo atto e tutto sarà irreversibile. Tutto inizierà qui, in questo giorno come tanti. In questo istante. La fine avrà inizio proprio qui, in un angolo di nulla.


All’inizio il virus non desterà preoccupazioni e sarà solo una banale, blanda influenza che colpirà solo alcune specie di volatili. Poco dopo la malattia comincerà a fare più vittime del previsto, tra gli uccelli. Ma solo quando il virus sarà in grado di mutare e passare da una specie all’altra, solo allora le cose cominceranno a preoccupare davvero.
I governi di tutto il mondo cominceranno a sospettare, a capire. Ma già adesso è troppo tardi.
Scienziati di tutto il pianeta cominceranno una disperata ricerca per trovare il modo di stanare il virus prima che sia capace di contagiare l’uomo.
E tutto sarà inutile.
E’ solo una questione di tempo.
La sua evoluzione programmata.
Collaudata.
L’infezione partirà da oriente. Prima decine, poi centinaia, migliaia di uccelli portatori della malattia. Contagiati. Morti, sterminati.
Un anticipo del destino.
Un’infezione resistente a tutti i mezzi che l’ingegno dell’uomo possa impiegare.
Il contagio sarà già avvenuto ma resterà invisibile.
Questo mondo è già morto senza saperlo.
Questo mondo muore oggi, adesso!
La più grande pandemia mai vista da questo pianeta.
La più grande tragedia mai vissuta da questa specie.
La più grande liberazione che abbia mai vissuto questo mondo!


Infine la gente comincerà ad ammalarsi. Nessuno vorrà credere al proprio destino. Migliaia, milioni di morti. Alla fine miliardi, tutti i miliardi di abitanti di questo pianeta.
La fine più democratica di tutte.
L’incredulità che lascia posto alla rabbia che lascia posto alla disperazione che infine si trasforma in rassegnazione.
A quel punto la nostra missione avrà avuto fine.


Adesso, qui fuori, seduti su questa panca di legno marcio, abbiamo aspettato che gli animali nella voliera si siano abbeverati. Adesso che i nostri mezzi di liberazione sono pronti…adesso, con tutta l’inconsapevole potenza del loro ruolo, verranno liberati.
Attraversiamo lo spazio che ci separa dalla gabbia. Gli stessi pochi passi.
Avverto un dolore limpido.
Ho paura nel momento in cui stacchiamo i perni di una delle pareti della voliera. Ne stacchiamo il lato nord e li liberiamo tutti. Solo un cigno sembra non volersi muovere. Per un istante sembra che mi guardi come se davvero avesse capito. Alla fine raggiunge i suoi compagni.
Liberiamo il mondo intero.
Cerco con lo sguardo il mio compagno che è già rientrato in casa.
Io rimango ancora qui fuori ad osservare lo stormo allontanarsi. Vedo le sagome degli uccelli che porteranno di nuovo calma e silenzio in questo posto perso da qualche parte in questo universo.